Il punto sulla crisi – 70 / Spread sotto quota Monti

Pubblicato su: www.teleborsa.it

Scorrendo i primi dati del 2013, balza all’occhio come il temuto spread si sia finalmente assestato, almeno per il momento, intorno ai 270/280 bp, quindi anche al di sotto della fatidica quota Monti fissata a quota 287 bp. Si ricorderà che questa soglia psicologica corrisponde, di massima, alla metà dello spread che l’Italia era costretta a pagare, nel novembre 2011, al “cinesino di turno” per convincerlo ad acquistare BTP italiani anziché BUND tedeschi.

Risulta del tutto evidente che un livello di spread decisamente più “urbano”, rispetto al recente passato, non implica certamente la fine dei nostri problemi, tuttavia (nonostante alcuni schieramenti politici tentino a svilirne il significato e la portata) costituisce un risultato per nulla trascurabile per almeno due ordini di ragioni.

La prima ragione è, ovviamente, di natura prettamente contabile: finché non si riuscirà ad intervenire sull’abnorme stock del nostro debito pubblico che ormai si aggira attorno ai 2000 mld di Euro, la spesa per interessi continuerà a costituire per il nostro Paese una variabile cruciale. Non è possibile, infatti, trascurare un buco nero che ogni anno assorbe una novantina di miliardi di risorse (circa il 5% del PIL) che potrebbero essere, ben più proficuamente, destinate alla ripresa, agli investimenti, all’occupazione. Di conseguenza, riuscendo attualmente a muoverci con spread a livello di 270 bp e con rendimenti sui BTP a 10 anni intorno al 4,80% (contro il 7% circa del novembre 2011), non vi è dubbio che i nostri conti pubblici e le nostre aziende, nel medio periodo, trarranno importanti benefici; basterà ricordare, a questo proposito, che una riduzione dello spread da 570 bp a 270 fa risparmiare allo stato, a regime, circa 30 mil di Euro al giorno di interessi e che, al contrario, 100 bp di incremento dello spread si traducono, in 3 mesi, in un rincaro di 50 bp sui tassi praticati alle nostre aziende.

La seconda ragione è, invece, di ordine psicologico. Più in particolare, l’aver raggiunto un livello di spread intorno ai 270 bp è di fondamentale importanza perché ha trasmesso agli investitori, ai partners europei, alle società di rating un segnale di maggior tranquillità, magari non di cessato pericolo, ma sicuramente di cessato “allarme rosso”; e questa percezione diffusa di una riduzione del rischio Italia ha portato i soggetti coinvolti non solo a ridarci fiducia, ma anche a concederci l’uso del fattore tempo, fattore indispensabile affinché i mutamenti strutturali avviati dal Governo Monti possano esplicare i loro effetti. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che l’estrema pericolosità dell’attuale crisi è derivata dalla sua velocità di avvitamento e che questa velocità è derivata, a sua volta, dal prevalere di aspetti intangibili quali la paura, la sfiducia, l’incertezza sui dati oggettivi di natura economica e finanziaria. Nel novembre 2011 l’enorme rischio corso dall’Italia non è derivato da un complotto internazionale, ma, molto più banalmente, da una irrazionale, ma generalizzata paura che la situazione italiana avesse superato il punto di non ritorno.

Da non trascurare, infine, il significato connesso al fatto che lo spread si sia mantenuto a livelli accettabili anche a seguito di accadimenti potenzialmente devastanti e non facilmente prevedibili quali la sostanziale sfiducia data al governo Monti, le dimissioni di quest’ultimo, le elezioni anticipate ed un possibile ritorno al recente passato. Evidentemente l’impalcatura che il premier Monti ha costruito intorno al nostro Paese (con il supporto provvidenziale di Mario Draghi) ha convinto i mercati e non è stata percepita dagli investitori come una fragile opera di facciata.

Anche perché, in caso contrario, ci sarebbe stato bisogno dell’intervento delle guide alpine per riportare a valle il nostro spread.

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