Il punto sulla crisi – 122 / Economia italiana: uno sguardo di inizio anno

Pubblicato su: www.teleborsa.it

Approfittando di uno scenario economico–finanziario stranamente non sottoposto a particolari tensioni, è forse opportuno fare alcune considerazioni di carattere generale sulla situazione dell’Europa e dell’Italia ad inizio 2018.

Guardando al nostro Paese, non c’è dubbio che lo scenario di fondo sia totalmente diverso da quello che ha connotato i momenti più bui della crisi. Per rendersene conto basta tornare con la memoria alla fine del 2011 quando i nostri partner europei avevano perso ogni fiducia nella capacità del nostro governo di gestire la delicatissima situazione. Allora l’Italia rischiò davvero che il meccanismo finanziario si avvitasse a causa del tasso sui BTP salito oltre la soglia del 7% e dello spread sul Bund balzato oltre i 570 bp.

Per completezza di informazione bisogna ricordare che alcuni ottimi economisti, tra cui Guido Salerno Aletta, sono convinti che la crisi del Novembre 2011, che spianò la strada al governo Monti, fu in realtà generata artificialmente o, perlomeno, esaltata ad hoc. In particolare ha destato grandi perplessità il comportamento di Deutsche Bank che, nel primo semestre del 2011, gettò rapidamente sul mercato, nel più totale silenzio, 7 mld di nostri titoli pubblici.

Il punto è che quando a giugno di quell’anno i mercati, già con i nervi a fior di pelle, vennero improvvisamente a conoscenza della repentina vendita la interpretarono come un forte segnale di sfiducia della banca e del governo tedesco sulla tenuta del debito pubblico italiano. Anche perché la banca tedesca, contemporaneamente, aumentò le protezioni su di noi acquistando circa 1,5 mld di Credit Default swap di copertura contro il rischio Italia.

Ovviamente si scatenò una ondata di vendite che ci fece arrivare ad un passo dal “punto di non ritorno”. Comunque sia, complotto o meno, come si diceva, l’attuale nostra situazione appare totalmente diversa. Non c’è dubbio che una certa ripresa sia in atto e che questa stia assumendo una natura strutturale come evidenziato anche dai dati Eurostat relativi al terzo trimestre 2017 che mostrano una crescita del nostro PIL su base annua dell’1,7%. Oltretutto, questo dato positivo appare sostanzialmente confermato sia dalle previsioni del Fondo Monetario che stima per l’Italia una crescita dell’1,5% nel 2017, sia dalle previsioni della Commissione UE per il 2018 che indicano una crescita dell’Italia intorno all’1,3%.

Dunque le percentuali di crescita dello 0,.. sembrerebbero essere diventate davvero un ricordo del passato. Tuttavia, se dai dati assoluti passiamo a comparare i nostri dati di crescita con quelli degli altri partner europei, gli entusiasmi si smorzano automaticamente. Infatti, se è vero che la nostra crescita si sta dimostrando più che accettabile, è anche vero che continuiamo ad arrancare dietro agli altri Paesi europei che però corrono molto più di noi.

Anche lasciando da parte le centometriste dell’ Europa dell’Est, quali Polonia, Romania e Repubblica Ceca che sono cresciute nel terzo trimestre su base annua rispettivamente del 5,5%, dell’8,6% e del 5%, rimane il fatto che la Commissione Europea prevede per l’Area Euro una crescita del 2,2% nel 2017 e del 2,1% nel 2018. Più in particolare i tedeschi cresceranno nel 2018 del 2,1%, mentre tutti i gregari (Olanda, Danimarca Svezia e Finlandia) cresceranno nel prossimo anno di oltre il 2,7%.

Il problema è che, qualora gli altri Paesi riuscissero davvero ad ingranare la marcia della ripresa mentre l’Italia, a causa dei suoi fardelli strutturali (debito pubblico abnorme, burocrazia, scarsa produttività, elevata tassazione) rimanesse indietro ed isolata, si accentuerebbe la pericolosa divaricazione tra l’andamento della nostra economia rispetto a quella dei partner. E questa divaricazione complicherebbe non poco il tentativo di recuperare i livelli di PIL ante crisi per il presumibile venir meno delle misure espansive (QE etc) fino ad oggi attivate.

Discorso analogo per quanto riguarda l’occupazione. E’ vero che i recentissimi dati dell’Istat evidenziano 23 milioni di occupati (massimo da 40 anni), un tasso di disoccupazione sceso all’11% (il livello più basso dal 2012) ed una disoccupazione giovanile scesa al 32,7%. Ma è anche vero che, anche qui, siamo ben lontani dai partner europei: il nostro tasso di occupazione (58,4%) contro una media dell’Eurozona del 66% è il peggiore in Europa dopo la Grecia. Inoltre è corretto evidenziare che il miglioramento del dato globale sulla nostra occupazione deriva in realtà dall’incremento dell’occupazione precaria stimolata dagli incentivi governativi. Purtroppo, solo un nuovo contratto di lavoro su 10 è a tempo indeterminato.

Dunque, le cose vanno in Italia sicuramente meglio, ma non possiamo assolutamente abbassare la guardia e, soprattutto, non possiamo permetterci il lusso di dare ai mercati con la prossima tornata elettorale ciò che più temono: l’incertezza. Anche perché le variabili che nel 2018 possono impattare sulle nostre banche e sulle nostre aziende rallentando cosi l’uscita dalla crisi non sono affatto poche.

Basterà ricordare, a questo proposito, l’inevitabile rallentamento delle politiche monetarie espansive della BCE (Quantitative Easing); l’impatto che le nuove normative di vigilanza sui crediti deteriorati potrà avere sul nostro sistema bancario (su 1000 mld di credito deteriorato in Europa 300 mld sono nostri); il forte faro acceso sui titoli pubblici detenuti dalle nostre banche (i nostri Istituti a fine 2017 ne avevano in pancia circa 350 mld).

Senza mai scordarci che nel 2019 Draghi terminerà il suo mandato alla BCE e che il principale candidato alla sua carica è Jens Wiedmann attuale presidente della Bundesbank. A buon intenditor…

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